LUOGHI


Coronavirus, il deserto dei luoghi


di Pierangelo Sapegno

Coronavirus, il deserto dei luoghi

Ognuno di noi ha lasciato qualche pezzo della sua vita in un luogo. Per questo, i posti vivono anche quando li abbiamo dimenticati. Perché sono come le persone, ti parlano come loro e possiamo ritrovarli come capita con gli amori che abbiamo perso il giorno in cui li rincontriamo dopo qualche tempo che non li vedevamo, e magari ci sembrano un po’ invecchiati, o magari no, sono diventati persino più belli.

Il Covid ci ha allontanato dai luoghi. Ma non ha allontanato solo noi, li ha svuotati anche della frenesia e della confusione della società di massa, dei suoi orpelli leziosi, dei suoi rumori assordanti. Faceva un certo effetto scoprire il Ponte Vecchio a Firenze completamente deserto, percorso appena da un alito di vento che spostava le foglie e le carte, senza una persona o una voce, guardare da soli le mura antiche del Colosseo, perché non c’erano turisti, non c’erano pullman, e non c’era più nessuno. Sono scesi i lupi nelle piazze, i cinghiali sono arrivati fin sotto casa nelle città della Toscana. I luoghi abbandonati finiscono per ritrovare una loro magia, per tornare indietro nel tempo, alle leggende che ne raccontavano la nascita. Il Canal Grande a Venezia, nei giorni infiniti del lockdown, è riapparso miracolosamente con le acque limpide in cui accanto ai nostri volti si specchiavano anche le immagini dei Dogi e delle galee che attraversavano i secoli. Abbiamo popolato i nostri luoghi di sogni e di desideri, svuotandoli di tutta la simbologia della società industriale, e quel che è riapparso ai nostri occhi è la nostra vera faccia, perché questo siamo noi, un meraviglioso paese costruito da un’umanità che ha creduto di eguagliare la bellezza di Dio, dai suoi artisti e dai suoi immaginifici signori, dai contadini che ne hanno disegnato i campi e le colline, dai carpentieri e gli architetti che hanno inventato le città e da tutti gli avi che sono morti lasciandoci questi dossi impervi e queste discese, questa terra nei vigneti che senti palpitare calda, come se avesse davvero sangue e anima.

Noi siamo una leggenda. Questo siamo. Perché i nostri luoghi li hanno fatti gli uomini, e chissà se il Covid ci ha aiutato almeno a riscoprire questa stupefacente verità. Nelle leggende che tramandiamo per far crescere i nostri figli non ci sono folletti e streghe, ma uomini e donne in carne e ossa. Con i loro peccati e le loro miserie. E con la loro grandezza, soprattutto. Non ci sono fate che sussurrano sulle scintillanti acque di Carlingford Lough, fra le dolci terre d’Irlanda, per raccontare delle impronte lasciate dai giganti, e non esiste da noi una dea chiamata Garavogue che nella contea di Meath passava in volo forgiando le rocce e il terreno. Ma se guardate il Duomo di Firenze e vedete sulla fiancata la testa di un bovino, vi spiegheranno che tutto nasce perché un mastro carpentiere che lavorava nel cantiere della cattedrale aveva una storia con la moglie di un fornaio, il quale lì denunciò al Tribunale Ecclesiastico obbligandoli a interrompere la relazione. Solo che il carpentiere decise allora di piazzare la testa di un toro in un punto preciso della fiancata, affinché il marito cornuto non potesse fare a meno di vederla ogni mattina dal suo forno. Siamo tutti figli di un peccato e così abbiamo costruito i nostri luoghi. Ma abbiamo saputo nobilitarli di una cosa che abbiamo dentro di noi, quando apriamo gli occhi da queste bande: la bellezza. Anche il Covid non ha potuto togliercela. Noi invece avremmo potuto riscoprirla, assieme a quello che ci dice e ci racconta. E chissà se lo abbiamo fatto. I luoghi che amiamo sono come le persone, li riconosci subito, dal profumo del cielo o dall’asperità di un terreno, dal rumore che fa il vento quando passa fra gli alberi o si poggia su una via. E nei posti di mare ci saranno cose messe da parte, una rete, una corda lasciata sulla pietra. Non è un pescatore che aspettano. Ma la sua leggenda. Perché questo siamo noi.

 

(©Pierangelo Sapegno/La Stampa, 28 luglio 2020)

(Nella fotografia: Arco di Costantino e Colosseo, Roma. Fotografia di Federico Scarchilli)